Magari ne hai già sentito parlare: i geni sono l'aristocrazia permanente dell'evoluzione, si prendono cura di se stessi mentre i loro ospiti di carne vanno e vengono. Questa è la tesi di un libro che è stato battezzato come il manoscritto di scienza più influente di tutti i tempi: Il gene egoista di Richard Dawkins.
Ma noi esseri umani, in realtà, generiamo molte più informazioni utilizzabili di quelle codificate in tutto il nostro materiale genetico combinato, e ne portiamo gran parte nel futuro. I dati al di fuori del nostro sé biologico - chiamiamoli datioma, (in anteposizione al genoma, N.d.T.) - potrebbero rappresentare la più grande impalcatura che regge una vita complessa. Il datioma può fornire una firma universalmente riconoscibile della caratteristica sfuggente che chiamiamo intelligenza, e potrebbe perfino insegnarci una o due cose su noi stessi.
Ma il datioma è anche un notevole fardello dal punto di vista energetico. Il suo peso ci impone a chiederci se lo stiamo producendo e proteggendo interamente a nostro vantaggio o, come nel caso del gene egoista, lo facciamo perché i dati ci spingono a farlo ed è questo che garantisce la loro propagazione nel futuro.
Prendiamo, ad esempio, William Shakespeare.
Shakespeare morì il 23 aprile 1616 e il suo corpo fu sepolto due giorni dopo nella chiesa della Santissima Trinità a Stratford-Upon-Avon. Il suo ormai famoso epitaffio reca una maledizione a chiunque osi "muovere le mie ossa". E per quanto ne sappiamo, negli ultimi 400 anni nessuno ha voluto rischiare di trovarsi di fronte all’ira di un Will non-morto.
Ma lui è sicuramente vissuto oltre la tomba. Al momento della sua morte Shakespeare aveva scritto un totale di 37 opere teatrali, tra gli altri lavori. Quelle 37 opere contengono un totale di 835.997 parole. Nei secoli successivi alla sua vita corporea sono state prodotte da 2 a 4 miliardi di copie fisiche delle sue opere e dei suoi scritti. Tutte queste copie sono composte da centinaia di miliardi di fogli di carta che fungono da contenitori per più di un quadrilione di lettere ricche di inchiostro.
Nel corso del tempo, questi miliardi di volumi sono stati fisicamente sollevati e trasportati, fatti cadere e raccolti, tenuti in mano o riposti sugli scaffali. Ogni singolo movimento ha comportato un piccolo dispendio di energia, forse qualche joule. Ma questi si sono sommati nel corso dei secoli. È possibile che, complessivamente, il semplice atto di braccia umane che sollevano e abbassano copie degli scritti di Shakespeare ci abbia fatto spendere più di 4 trilioni di joule di energia. Il che equivale a bruciare diverse centinaia di migliaia di chili di carbone.
In aggiunta, è stata utilizzata dell’energia ogni volta che un essere umano ha letto alcune di quelle 835.997 parole e ha attivato i neuroni. Oppure le ha pronunciate davanti a un pubblico rapito, o ha speso decine di milioni di dollari per farne un film, o ha acceso la TV per guardare una delle rappresentazioni, o ha guidato fino a un festival su Shakespeare. O per quel motivo ha comprato un busto di cattivo gusto del "bardo immortale" e lo ha trasportato su una mensola del camino. Aggiungi il dispendio energetico per la produzione della carta, dei libri e del loro trasporto e i numeri crescono e crescono.
Una parte del datioma di Shakespeare è composto da questa statua.
È praticamente impossibile valutare appieno il dispendio energetico che William Shakespeare ha involontariamente scaricato sulla specie umana, ma è un peso considerevole. Certo, possiamo facilmente perdonarlo, in effetti ha scritto delle cose buonine. Ma il senso è che i dati di Shakespeare sono diventati la sua parte vivente di datioma, che propaga se stesso nel futuro e costringe tutti noi a sostenerlo, come sta accadendo proprio ora con questa frase.
Shakespeare, per essere onesti, ha contribuito a malapena come una goccia in un vasto oceano di dati che è allo stesso tempo etereo ma in realtà estremamente tangibile nei suoi effetti su di noi. Questa è sia la gloria sia il macigno che grava sull'Homo sapiens.
Abbiamo generato e moltiplicato dati persistenti fin dal nostro primo scambio orale di una storia e dalla nostra prima impronta sulla parete di una caverna. Nessuna di queste cose era codificata esplicitamente nel nostro DNA, eppure sono sopravvissute facilmente all'individuo che le ha create. In effetti, dati come questi sono sopravvissuti generazione dopo generazione di esseri umani.
Ma con il passare del tempo la nostra produzione di dati ha subito un'accelerazione. Oggi, secondo alcuni, la nostra specie genera circa 2,5 quintilioni di byte di dati al giorno. Più di un miliardo di miliardi di byte per ogni rotazione planetaria. E quel tasso di produzione è ancora in crescita. Sebbene molti di questi dati siano un misto di record fugaci, dalle ricerche su Google al controllo del traffico aereo, sempre di più finiscono per persistere nell'ambiente. Video di animali domestici, GIF, diatribe politiche, risposte dei “troll”, nonché cartelle cliniche, dati scientifici, documenti aziendali, e-mail, tweet, album fotografici, finiscono tutti come segnali elettrici semi-permanenti su silicio drogato o punti magnetici su dischi rigidi.
Questa produzione e archiviazione di dati richiede molta energia per essere mantenuta, da quando le mani di qualcuno cercano elementi di terre rare nel suolo, fino all'elettricità che li sostiene. C'è una ragione per cui una grande azienda come Apple si costruisce le proprie farm di data server e cerca ogni modo per ottimizzare la generazione di energia richiesta da queste fabbriche tutte aria condizionata e spara-elettroni, ad esempio costruendo enormi parchi solari in Nevada o utilizzando l'energia idroelettrica in Oregon.
Anche il medium di Shakespeare, la carta tradizionale, è ancora una bestia assetata di energia. Nel 2006 è stato stimato che la produzione di carta degli Stati Uniti abbia inghiottito circa 2.400 trilioni di BTU (circa 4 milioni trilioni di trilioni di trilioni di Joule) per sfornare 99,5 milioni di tonnellate di cellulosa e prodotti di carta. Ciò equivale a circa 28.000 Joule di energia utilizzata per grammo di materiale finale, prima ancora che i dati vengano stampati su di esso. In altre parole, equivale a bruciare circa 5 grammi di carbone di alta qualità per pagina di carta.
Perché lo facciamo? Perché dedichiamo sforzi sempre maggiori per mantenere i dati che noi e le nostre macchine generiamo? Questo comportamento può rappresentare molto di più di quanto pensiamo a prima vista.
A prima vista, infatti, sembra abbastanza ovvio che la capacità di portare con noi così tanti dati nel tempo sia una parte fondamentale del nostro successo nel diffonderci in tutto il pianeta. Possiamo continuamente attingere alla nostra conoscenza ed esperienza collettiva in un modo che apparentemente nessun'altra specie fa. Il nostro datioma ci fornisce un enorme vantaggio evolutivo.
Ma chiaramente non è un vantaggio gratuito. Potremmo essere intrappolati in una realtà darwiniana più grande, in cui siamo utilizzati come organello di supporto per il nostro datioma.
Questo è un modo inquietante di guardare a noi stessi, ma ha dei parallelismi in altre aspetti del mondo naturale. Il nostro microbioma, composto da decine di trilioni di organismi unicellulari, è perpetuato non tanto da noi come individui, ma da generazioni di noi che trasportano queste informazioni biologiche nel tempo. Potremmo anche capovolgere questo quadro e concettualizzare la situazione come: è il microbioma che trasporta noi nel tempo. Il microbioma esiste dentro di noi perché siamo un buon ambiente, ma la relazione è simbiotica. I microbi sono obbligati a fare le cose in un certo modo, devono lavorare per supportare i loro sistemi di trasporto umano. Un essere umano per i microbi rappresenta un fardello energetico tanto quanto un vantaggio evolutivo. Allo stesso modo, il nostro datioma è sia un vantaggio per noi umani, sia un peso.
La domanda quindi è: la nostra simbiosi è ancora sana? L’attuale carico energetico del datioma sembra essere al massimo livello nella storia della nostra specie. Non ne consegue, per noi, un vantaggio ampio allo stesso modo. Potremmo fare bene a esaminare se esiste uno stato ottimale per il datioma, un equilibrio tra i vantaggi evolutivi che conferisce alla sua specie e il peso che rappresenta.
La proliferazione di dati di utilità apparentemente molto bassa (che potrei descrivere scontrosamente come immagini di gatti e selfie) potrebbe effettivamente essere un segno di preoccupante disfunzione nel nostro datioma. In altre parole, una crescita indifferenziata ed esponenziale di dati di basso valore suggerisce che i dati possono contrarre il cancro. In tal caso faremmo bene a prenderlo molto sul serio, come un problema di salute umana, specialmente se il suo trattamento riducesse il nostro carico energetico globale e quindi il nostro impatto sull'ambiente a livello planetario.
Migliorare l’utilità dei nostri dati, eliminare la spazzatura che spreca energia potrebbe non essere una soluzione popolare, ma forse andrebbe incentivata. O attraverso schemi di credito, simili a quelli per la produzione di energia solare domestica che viene rivenduta alla rete, o rendendo la perdita di dati una caratteristica positiva. Quello che si potrebbe chiamare “approccio Snapchat”.
In tal caso, la simbiosi uomo-datioma potrebbe diventare l'unico esempio in natura di una relazione simbiotica gestita consapevolmente da una delle parti. Quale sarebbe la robustezza evolutiva a lungo termine è difficile da dire.
Ma più ottimisticamente, se il datioma è davvero parte integrante e integrata del nostro percorso evolutivo, allora forse studiandolo possiamo imparare di più non solo su noi stessi e sulla nostra salute, ma sulla natura della vita e dell'intelligenza in generale. Il modo in cui interroghiamo il datioma è una questione ancora aperta. Potrebbe esserci una struttura emergente al suo interno che semplicemente non abbiamo ancora riconosciuto, e avremo bisogno di sviluppare misure e metriche per esaminarla correttamente. Gli strumenti esistenti come la teoria della rete o la genomica computazionale potrebbero aiutare.
I potenziali benefici di tale analisi potrebbero essere enormi. Se il datioma è una cosa reale, rappresenta un pezzo mancante del nostro puzzle, della funzione e dell'evoluzione di una specie senziente. Faremmo bene almeno a dare un’occhiata. Come disse una volta Shakespeare: “La trama della nostra vita è intrecciata con fili buoni e cattivi”.