Scrivere è un atto innaturale.
Così dice Steven Pinker nel suo The sense of style, così sosteneva Darwin nell’Origine delle specie: “L'uomo ha una tendenza istintiva a parlare, come osserviamo nel balbettio dei nostri bambini, mentre nessun bambino ha la tendenza istintiva a fare il pane o la birra, o a scrivere”.
La parola orale è molto più antica di quella scritta, e fra le due esiste una meccanica ben diversa.
Quando parliamo abbiamo un interlocutore davanti (o perlomeno, la maggior parte delle volte) che possiamo guardare per ottenerne delle informazioni non verbali e modulare di conseguenza le nostre parole. Quando scriviamo, il lettore esiste solo nella nostra immaginazione.
“Scrivere è prima di tutto un atto di finzione”, dice Pinker.
Ma cosa vuol dire fingere?
Un atto di finzione non è menzogna, non è falsità, non è bugia.
Un atto di finzione è una rappresentazione, è una trama di cui possiamo riconoscere la verosimiglianza. Un atto di finzione è qualcosa di non accaduto ma che sarebbe perfettamente possibile.
Gran parte della narrativa è un atto di finzione in cui i lettori possono riconoscere le coordinate del mondo e immedesimarsi, e gran parte della costruzioni di questi mondi funziona proprio perché è verosimile.
Pensa ad esempio a Zeno Cosini, il protagonista de La coscienza di Zeno, nella sua eterna lotta per smettere di fumare. Un personaggio complesso e per questo così realistico: potremmo essere noi stessi, potrebbe essere il nostro migliore amico, nostro zio, nostro fratello.
Oppure pensa a Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio: una ragazza non bella ma dall’intelletto acuto, che ad un ballo sente Mr. Darcy darle della “appena passabile” e per questo lo prende in antipatia. Come darle torto? Come ci comporteremmo, noi?
O ancora, pensa al papà e avvocato Atticus Finch de Il buio oltre la siepe, quando dice a sua figlia “Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda”. Un pensiero che quel giorno là, in cui pensavi di non farcela, ti avrebbe fatto piacere ricevere da tuo padre, non è vero?
Verità, nella scrittura, significa mostrare ai lettori qualcosa e coinvolgerli in questa forma di conversazione, lasciando che sia la coscienza di ciascuno a trarre le proprie conclusioni.
Se a parole orali ci viene facile dire la nostra verità, giusta o sbagliata che sia, con le parole scritte è un po’ più complicato.
Oggi si parla molto di storytelling, una delle parole più abusate dei nostri tempi.
Storytelling è l’inglesismo per “raccontare una storia”, piano e semplice. Ma raccontare una storia non significa persuadere in modo oscuro o mentire, come dicevo.
Mi piace dirlo con le parole di Primo Levi:
Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.
Ecco dunque cosa significa scrivere civile: scrivere in modo chiaro, verosimile, onesto.
Levi poi va oltre, affermando che “lo scrivere chiaro è un fatto non solo di civiltà, ma di responsabilità umana, perché abbiamo il dovere morale di rendere conto di quanto scriviamo, parola per parola”. E che lo scrivere oscuro è “un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali”.
Scrivere oscuro è un modo sottile di imporre il proprio rango.
Le omissioni, i paroloni, le nominalizzazioni, gli inglesismi o le espressioni gergali, per non parlare degli pseudo-linguaggi come burocratese, aziendalese e avvocatese sono una barriera che ci allontana gli uni dagli altri anziché un ponte per incontrarci nel senso comune.
Se vogliamo scrivere, facciamo che sia civile.